Contro la violenza di genere serve abbattere gli stereotipi fin dall’infanzia #conibambini

Gli stereotipi sul ruolo della donna, spesso acquisiti nei primi anni di vita, hanno un impatto enorme nell’acquiescenza verso comportamenti violenti. Il lavoro delle scuole e della comunità educante, in sinergia con i soggetti che si occupano del tema, è strategico.

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La violenza di genere può colpire due volte i bambini e i ragazzi che la subiscono. Che si tratti di violenze a cui si assiste o subite in prima persona, i figli e le figlie che vivono un ambiente familiare di soprusi patiscono un trauma indelebile.

Come abbiamo avuto modo di raccontare, ciò ha conseguenze immediate. Tra le quali disturbi del sonno, senso di inquietudine, aggressività, comportamenti adultizzati di accudimento verso i familiari.

Vi può essere però anche un effetto di più lungo termine, che ha a che vedere con la cosiddetta trasmissione intergenerazionale della violenza. La letteratura ha infatti individuato come crescere in un contesto familiare violento aumenti la probabilità di acquisire modelli comportamentali negativi, o comunque di accettarli come normali.

I figli che assistono alla violenza del padre nei confronti della madre o che l’hanno subita hanno una probabilità maggiore, infatti, di essere autori di violenza nei confronti delle proprie compagne e le figlie di esserne vittime. Dai dati emerge chiaramente che i maschi imparano ad agire la violenza, le femmine a tollerarla.

32.989 le chiamate al 1522 nei primi 6 mesi del 2024. Il 70% in più rispetto allo stesso periodo del 2023. Un dato che testimonia maggiore consapevolezza, ma anche l’impatto del fenomeno nel nostro paese.

Per contrastare questo fenomeno serve lavorare fin dalle scuole sulla consapevolezza di cosa rappresenti la violenza di genere. Scardinando anche il retroterra di stereotipi e discriminazioni che ne è alla base, così da acquisire dall’infanzia una cultura di parità e rispetto verso le donne.

In parallelo, serve anche potenziare la rete dei centri antiviolenza e di case rifugio. Ne abbiamo approfondito la diffusione sul territorio nazionale, anche rispetto al lavoro con scuole e comunità educanti, per costruire una maggiore consapevolezza su questi fenomeni.

Come gli stereotipi alimentano la violenza di genere

I dati preliminari provenienti dall’indagine Istat sugli stereotipi di genere e l’immagine
sociale della violenza
hanno fatto emergere un quadro chiaroscuro. Da un lato, la tolleranza verso forme di violenza fisica all’interno di una coppia è diminuita, anche se non scomparsa. Il 2,3% del campione intervistato continua infatti a ritenere accettabile che “un ragazzo schiaffeggi la sua fidanzata perché ha civettato/flirtato con un altro uomo”. Quasi il doppio (4,3%) considera tollerabile che “in una coppia ci scappi uno schiaffo ogni tanto”.

Inoltre, anche tra i giovani appare rilevante la quota di chi dichiara di accettare il controllo dell’uomo sulla comunicazione della partner (10,2%). E sebbene sia cresciuta la consapevolezza delle donne verso gli stereotipi di genere che le confinano in un ruolo subalterno a quello maschile, alcuni di questi restano ampiamente radicati.

Oltre un intervistato su 5 condivide che gli uomini siano “meno adatti ad occuparsi delle faccende domestiche” (21,4% in media, 24,6% tra i maschi), che una donna abbia bisogno dei figli per essere completa (20,9%, 24,2% tra gli uomini) e che il successo nel lavoro sia più importante per l’uomo (20,4%, in questo caso senza particolari differenze di genere). Mentre più donne che uomini ritengono che sia compito delle madri seguire i figli e occuparsi delle loro esigenze quotidiane.

20,2% delle persone ritiene che sia compito delle madri seguire i figli e occuparsi delle loro esigenze quotidiane (20,7% tra le donne).

La conservazione di una mentalità che considera la donna subalterna all’uomo e alle esigenze della famiglia ha spesso un riscontro nella giustificazione o acquiescenza verso le violenze di genere, in questo caso più frequente tra gli uomini.

Quasi un uomo su 5 (19,7%) pensa che le donne possano provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire (14,6% tra le donne). Sfiora il 40% la quota di maschi intervistati che ritiene che una donna sia in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole (29,7% tra le donne). Circa un decimo degli intervistati, senza particolari differenze tra uomini e donne, attribuisce alla donna la responsabilità – almeno parziale – della violenza sessuale quando è ubriaca o sotto l’effetto di sostanze, oppure se accetta un invito dopo una festa.

Un lavoro culturale sulla parità di genere

Di fronte alle violenze, attribuite da oltre 3 intervistati su 4 alla considerazione della donna come oggetto di proprietà (83,3%) e al bisogno dell’uomo di sentirsi superiore alla moglie/compagna (75,9%), appare evidente la necessità di iniziative culturali ed educative per superare stereotipi radicati.

15,8% ritiene che si parli sempre più spesso della violenza per la presenza di iniziative di sensibilizzazione e servizi a favore delle vittime.

Questo tipo di iniziative possono essere realizzate solo con il lavoro sinergico delle istituzioni educative, sociali e culturali. Anche valorizzando l’attività dei servizi territoriali a sostegno delle vittime di violenza, di cui è importante valutare la diffusione e la possibilità di intervento in questa direzione.

I centri contro la violenza di genere sul territorio nazionale

Il censimento rilasciato lo scorso anno da Istat e dal dipartimento per le pari opportunità ha fatto emergere come in Italia nel 2022 siano risultati attivi circa 400 centri antiviolenza (Cav). Un dato in crescita del 3,2% rispetto all’anno precedente e del 37% rispetto al 2017.

385 i centri antiviolenza attivi in Italia nel 2022.

In media, l’offerta è quindi pari a 0,13 centri ogni 10mila donne, con forte variabilità territoriale. La quota sale a 0,18 centri ogni 10mila residenti nel sud continentale ed è in linea con la media nazionale nel centro Italia. Mentre risulta inferiore nelle isole (0,12), nel nord-ovest (0,11) e nel nord-est (0,1).

Le regioni con maggiore diffusione rispetto alle residenti sono Molise, Umbria, Campania e Abruzzo, dove i centri raggiungono o superano la quota di 0,2 ogni 10mila donne. Si attestano invece sotto la soglia di 0,1 centri Marche, Basilicata e la provincia autonoma di Trento.

FONTE: elaborazione openpolis – Con i Bambini su dati Istat e dipartimento per le pari opportunità
(pubblicati: venerdì 24 Novembre 2023)

A variare però non è solo la presenza, ma anche il tipo di servizio effettuato. Per fare un esempio, se in media quasi la totalità dei centri rispondenti aderisce al numero dedicato 1522 (99,1%), la quota scende al 97,9% in Campania, al 97,3% nel Lazio e al 91,7% in Calabria. A fronte di circa 3 centri su 4 che dichiarano una reperibilità 24 ore su 24, la percentuale non raggiunge il 25% in Valle D’Aosta, Trento, Marche e Veneto.

Nel 2022, in 8 regioni tutti i centri antiviolenza censiti riportano di aver svolto attività di informazione e formazione nelle scuole. La quota scende sotto l’85% dei Cav censiti in Calabria, Campania, Trentino Alto Adige e Molise. In quest’ultima regione nessun centro ha riportato lo svolgimento di tale attività.

FONTE: elaborazione openpolis – Con i Bambini su dati Istat
(ultimo aggiornamento: venerdì 24 Novembre 2023)

Uno sguardo alla capillarità territorio nazionale

I dati provenienti dall’indagine offrono un quadro di livello regionale dell’offerta, che è interessante approfondire – in chiave locale – con i dati comunali sulla spesa per i centri antiviolenza e case rifugio, elaborati da Istat nell’ambito delle statistiche sperimentali.

I livelli più alti di spesa comunale per centri antiviolenza e case rifugio rispetto alle donne residenti si registrano nei comuni della provincia autonoma di Bolzano, dove in media nel 2020 ha sfiorato gli 8mila euro pro capite.

FONTE: elaborazione openpolis – Con i Bambini su dati Istat (statistiche sperimentali)
(pubblicati: venerdì 8 Marzo 2024)

Livelli elevati anche nella città metropolitana di Bologna (trainata dal comune capoluogo) e nel foggiano. In queste due aree mediamente la spesa comunale supera i 3.000 euro ogni mille donne residenti. Sopra i 2mila euro medi anche le aree di Oristano, Vercelli e Terni. Sotto i 200 euro ogni mille donne residenti i comuni siciliani, lucani, calabresi e valdostani. Nei comuni calabresi e valdostani la media non raggiunge i 5 euro ogni mille donne residenti.

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I contenuti dell’Osservatorio povertà educativa #conibambini sono realizzati da openpolis con l’impresa sociale Con i Bambini nell’ambito del fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Mettiamo a disposizione in formato aperto i dati utilizzati nell’articolo. Li abbiamo raccolti e trattati così da poterli analizzare in relazione con altri dataset di fonte pubblica, con l’obiettivo di creare un’unica banca dati territoriale sui servizi. Possono essere riutilizzati liberamente per analisi, iniziative di data journalism o anche per semplice consultazione. I dati relativi alla spesa per centri antiviolenza e case rifugio rispetto alle donne residenti sono di fonte Istat (a misura di comune).

Foto: woodleywonderworks (Flickr)Licenza

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