di Mark Purcell (1)

Oggigiorno il “diritto alla città” è spesso utilizzato da attivisti e riformatori che vogliono migliorare i centri urbani. Nella maggior parte dei casi esso viene però interpretato in termini liberal, ovvero come richiesta di ampliamento dei diritti individuali che lo Stato ci garantisce. L’idea originale, concepita nella Francia degli anni sessanta ed in particolare negli scritti di Henri Lefebvre, ha invece un carattere più radicale che penso sia importante rivisitare.

Con l’autogestion généralisée la gente governa se stessa invece di essere governata dallo Stato

Nella concezione di Lefebvre il diritto alla città, come anche quello all’informazione, sono parte di un progetto politico più ampio che prevede che la gente si alzi in piedi e decida di attivarsi per prendere il controllo su questioni che possono toccare diversi aspetti della propria vita. Al tempo in Francia si parlava di autogestion généralisée (o autogestione generalizzata) per riferirsi al controllo diretto delle fabbriche da parte degli operai che non avrebbero più avuto bisogno di proprietari e manager. Non era una questione di riforme, come salari più alti o maggiori diritti sul posto di lavoro, si trattava piuttosto di accendere una miccia rivoluzionaria. Se l’autogestione in fabbrica comporta l’appropriazione dei mezzi di produzione da parte dei lavoratori e la conseguente obsolescenza di proprietari e manager, con l’autogestion généralisée la gente governa se stessa invece di essere governata dallo Stato. Gli studenti e gli insegnanti gestiscono la scuola invece di essere governati da amministratori specializzati, e così via. È in questa cornice di autogestion généralisée che la generazione di Lefebvre inseriva il diritto alla città come dichiarazione degli abitanti che volevano cominciare ad appropriarsi della città e a gestire direttamente la produzione e l’amministrazione invece di affidarle agli esperti delle agenzie statali, aziende pubbliche, multinazionali e simili.

Occorre comprendere però che l’autogestion généralisée non era vista come un’utopia, non ci si aspettava che la gente potesse controllare ogni aspetto della propria vita da un giorno all’altro. L’autogestione era intesa come un progetto in continuo divenire, che inizia con la dichiarazione di volersi attivare per gestire in maniera autonoma le cose che riteniamo importanti e prosegue mettendo in pratica questa volontà con perseveranza e risolutezza nel tempo. Il diritto alla città è quindi un progetto continuo degli abitanti per autoprodurre e autogestire gli spazi urbani in cui abitano.

Non permetteremo più che sia qualcun’altro a gestire le nostre informazioni per conto nostro…

Un’interpretazione in chiave liberale del diritto all’informazione potrebbe limitarsi alla capacità dei cittadini di accedere alle informazioni necessarie per prendere decisioni migliori per le città in cui vivono. In questo scenario i cittadini lottano per avere accesso alle informazioni che poteri esterni e sovraordinati tengono strette nelle loro mani. Gli sforzi di Edward Snowden e WikiLeaks, per esempio, vanno in questa direzione. Nonostante il libero accesso sia un aspetto importante del diritto all’informazione, vorrei proporre una lettura più profonda in cui esso rappresenta una dichiarazione di chi abita le città e vuole affermare che non permetteremo più che sia qualcun’altro a gestire le nostre informazioni per conto nostro ma che saremo noi stessi a produrle e gestirle autonomamente.

…ma saremo noi stessi a produrle e gestirle autonomamente.

Ci sono numerosi esempi di come potremmo sostenere questo progetto, ma qui mi limito a proporne un paio. In india, quando il governo deve preparare il censimento e raccogliere altri dati socio demografici, le autorità spesso sottovalutano o ignorano gli insediamenti informali in città, le persone che li abitano, le attività che esse svolgono ed il valore umano che producono. Di norma chi risiede in questi insediamenti non riceve i servizi essenziali e spesso vengono sgomberati per creare spazio per altri usi dei terreni. Per reazione, alcuni gruppi di abitanti hanno deciso di organizzarsi per raccogliere informazioni più complete sulla loro situazione facendo sondaggi e creando mappe collaborative. In questo modo non solo hanno prodotto informazioni migliori, che tornano utili per ottenere i servizi di prima necessità e a contrastare gli sfratti e le rimozioni, ma in aggiunta la produzione collettiva di conoscenza si è rivelata un efficace mezzo di mobilitazione ed attivazione della comunità; inoltre essa ha permesso a chi ne ha preso parte di apprendere nuove competenze, promuovere la solidarietà e a proporsi come attori politici.

Ogni lotta urbana necessita di informazioni di qualità ma, forse è ancora più importante che gli abitanti abbiano il controllo della loro produzione, gestione e utilizzo

Le attività del Los Angeles Community Action Network (LACAN) presentano dinamiche simili al caso indiano. Prima di un recente provvedimento che ha obbligato tutti gli agenti di polizia ad indossare delle body cam (telecamere portatili), chi voleva denunciare episodi di brutalità, maltrattamenti e razzismo non disponeva di prove concrete. Nel 2005 LACAN ha iniziato ad organizzare dei programmi di controllo comunitario in cui i cittadini usavano diversi strumenti di ripresa video per fornire prove sulle violazioni dei diritti civili a chi voleva sporgere denuncia (2). Proprio come in India il vantaggio non risiedeva solo nell’accesso a nuove informazioni per i cittadini che le hanno rese disponibili alle loro comunità, ma l’atto stesso di produrle ha incoraggiato l’attivazione, l’organizzazione e la fiducia in loro stessi.

In entrambi i casi è importante prestare attenzione sia al prodotto (sic) informazionale che ai meccanismi di produzione (sic): i cittadini non volevano accedere ai dati che non gli venivano forniti né chiedevano che fossero raccolti per loro; avevano invece deciso di produrre autonomamente le informazioni che ritenevano importanti per il loro progetto di creazione della città che desideravano.

Credo che dovremmo radicalmente riconsiderare il diritto alla città e quello all’informazione nel contesto dell’autogestion généralisée come due aspetti di un unico progetto in continuo divenire in cui accettiamo la sfida di gestire autonomamente le nostre città, le nostre informazioni ed i nostri interessi.

L’autogestion généralisée non è un’utopia: in quanto progetto in divenire non possiamo aspettarci di finirlo ma possiamo cominciarlo

Anche se potrebbe sembrare un’impresa estrema non dobbiamo farci intimidire. Ripeto, l’autogestion généralisée non è un’utopia: in quanto progetto in divenire non possiamo aspettarci di finirlo (sic) ma possiamo cominciarlo (sic) e continuare a rinnovare il nostro impegno. In questo modo scopriremo ciò che si è già rivelato a chi ci ha provato prima di noi: siamo più bravi a gestire i nostri interessi di quanto potremmo immaginare. Inoltre scopriremo che l’autogestion généralisée può regalare una gioia rivitalizzante e duratura che agisce profondamente dentro di noi e ci rende più forti. Una gioia che ci alimenta, ci dà potere e desiderio di fare le cose insieme. Siamo completamente in grado di creare da soli il tipo di città che vogliamo e, se decideremo di farlo, credo che non ce ne pentiremo.

È tempo, quindi, di mettersi al lavoro.

Note:
(1) Mark Purcell – Università di Washington (mpurcell@uw.edu)
Traduzione Federico Piovesan – Twitter: @federicopvs
(2) Quest’anno un’iniziativa simile ha filmato gli spari della polizia a Alto Sterning a Baton Rouge, LA.

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