Centri d'Italia
3. L’esperienza sul campo di Borderline Sicilia. Intervista ad Alberto Biondo
Alberto Biondo fa parte dell’associazione Borderline Sicilia, Alberto ci puoi raccontare di cosa si occupa Borderline?
Borderline Sicilia è una piccola associazione Onlus formata da 5 soci che nasce nel 2008 con lo scopo di raccontare l’immigrazione in Sicilia e per contronarrare quella che era già di fatto era la narrazione comune, per far conoscere alla gente quello che avveniva e come avveniva il percorso migratorio. Inoltre sin dal 2008 abbiamo cominciato a fare il monitoraggio delle strutture sul territorio siciliano, avvalendoci della collaborazione di volontari. Sia noi che i volontari abbiamo sempre portato avanti questa mission come puro volontariato, perché crediamo che fare verità sia importante. Tutto quello che abbiamo fatto è sempre stato riportato online in dei report, prima in un blog e adesso sul sito. Il lavoro di Borderline è cambiato nel tempo perché nel 2008 non c’erano ancora tutte le restrizioni che ci sono adesso per entrare nei Cas. La finalità ultima è quella di sostenere, di assistere dal punto di vista sociale e legale le persone che incontriamo per strada, nei Cas, alla stazione. Inoltre proprio per quello che dicevo poc’anzi rispetto alla contronarrazione, promuoviamo incontri di sensibilizzazione nelle città in cui siamo presenti: tutela dei diritti, garanzia di pari opportunità, sono tutte situazioni che mettiamo in campo per promuovere tra virgolette la giustizia.
Ascolta l’intervista integrale ad Alberto Biondo
Dalle mappe che abbiamo generato sembra che la maggior parte dei Cas sul territorio trapanese sia in aree periferiche, lontano dai centri abitati, ci confermi questa pratica?
Si e più andiamo avanti nel tempo, più è praticata questa prassi odiosa. Odiosa perché si tende a nascondere le persone. Inizialmente non era così, ma più si è andati avanti, più il numero delle persone è cresciuto, più il numero dei Cas è cresciuto più si è andati alla ricerca di posti isolati, abbandonati, fuori dai centri abitati.
E questa è una scelta delle prefetture o esiste un dialogo tra la prefettura e gli enti locali su dove collocare i Cas e in generale come gestire l’accoglienza?
C’è un accordo, negli ultimi anni gli enti locali hanno voce in capitolo pure sulla collocazione. Quindi se l’ente locale, il sindaco, da un parere negativo all’apertura di un Cas in centro, si rivede la situazione e si scelgono, con il benestare dei sindaci, posti che sono fuori dal contesto urbano abitato. Sono sempre più frequenti i centri in delle baite di montagna, degli agriturismi, delle villette fuori dal contesto abitato. E questo non solo per i Cas, è diventata un’abitudine, discriminatoria, che coinvolge anche i centri per minori dove non c’è neanche il mezzo pubblico che collega il cas o il centro per minori al paese. Sono quindi veramente isolati, noi diciamo invisibili, l’importante è che non si vedano.
Dai dati vediamo che c’è una tendenza ad avere grossi centri, ma c’è stato un tentativo di sviluppare un’accoglienza più diffusa in piccoli centri o è sempre stata questa la pratica?
Mai, sempre centri grandi, al limite si è tentato di diminuire i 400 posti del vecchio Cara di Salina grande a 100 posti o 80 posti. Poi è stata fatta la proroga per Villa Sant’Andrea per necessità, per 200 posti ma sono arrivati anche a 250, 270 mi sembra. Adesso ci sono nuovamente dei grossi centri contenitori da 100 posti e passa. Questo perché, quando si dice il business dell’immigrazione, più migranti ci sono più riesco a guadagnarci. Quindi è logico che le cooperative, che hanno un supporto politico non indifferente, spingono verso i grossi contenitori e non verso la casa con 4 ragazzi.
Una volta assegnati i bandi la prefettura porta avanti un’opera di monitoraggio per verificare il rispetto degli obblighi contrattuali e le condizioni degli ospiti dei centri?
Il monitoraggio è fatto male o non è fatto con costanza, ora come in passato. Oggi c’è una struttura ministeriale che dovrebbe monitorare tutti i Cas d’Italia e che sporadicamente va nei vari territori. Ma non è un fatto per nulla costante, quando arrivano da Roma chiedono alla prefettura dove andare a monitorare. Questo evidenzia una mancanza di continuità, anche perché all’interno della prefettura, il personale non è numericamente adeguato. Tutte le prefetture a cominciare da Trapani hanno personale risicato, una due persone che dovrebbero fare tutto, compreso il monitoraggio, e non ce la fanno. Le organizzazioni umanitarie non hanno più il mandato per monitorare, fanno tutte formazione. Poi magari si muovono per delle vulnerabilità. Oim si muove per quanto riguarda la tratta, per i richiedenti asilo e potenziali attenzionati Unhcr si muovono loro. Però fondamentalmente non c’è un adeguato controllo e monitoraggio. Noi chiediamo di volta in volta l’autorizzazione per andare a monitorare il centro che ci viene indicato magari tramite ragazzi, tramite qualche operatore . Poi contestualmente al report che pubblichiamo portiamo a conoscenza della prefettura le situazioni che troviamo e facciamo lo stesso con Unhcr, Oim o Save the Children se riguarda minori. In qualche caso la prefettura dopo i nostri report e le nostre segnalazioni ha chiuso alcuni Cas o ha fatto dei controlli. In qualche caso ha chiuso preventivamente la struttura prima che andassimo. È bastato solo chiedere l’autorizzazione per visitare il centro, ci è stata negata e poi è stato chiuso il centro. Quindi spesso le comunicazioni che ci arrivano non sono tanto sbagliate. Non abbiamo una linea che ci unisce con la prefettura, però vista l’inadeguatezza sia di numero che di quello che dovrebbero fare, monitorare, spesso e volentieri si fidano delle nostre segnalazioni. Ultimamente per fare un esempio abbiamo fatto una segnalazione rispetto al Cas di Poggioreale, la prefettura ha messo subito in allerta il commissariato di Poggioreale e la caserma dei carabinieri. Questo per dire in due parole il monitoraggio non c’è, non è adeguato, non c’è un controllo. Anche perché se la prefettura va a fare il monitoraggio controlla le carte, e quelle facilmente sono bypassabili dall’ente gestore perché se devo dare il cibo metto una “X” e questo si può bypassare facilmente. Oppure le firme dei professionisti, assistenti sociali, psicologi, operatori legali, metto le firme sul registro presenze e sono a posto, i ragazzi poi gli operatori legali o gli assistenti sociali di fatto non li vedono mai. Perché non ci vanno. Però sulla carta figurano. Ed è questo che vanno a controllare, con i ragazzi non ci parlano. Quando vanno non hanno i mediatori, non hanno persone che parlano inglese o francese, quindi si sente solo una voce. Quando noi andiamo a fare monitoraggio sentiamo le due voci: quella dell’ente gestore e soprattutto quella dei ragazzi. Quindi qualche cosa viene fuori, proprio perché abbiamo un dialogo con chi vive quei luoghi.
Dai dati che abbiamo analizzato emerge che i tre gestori più importanti, ovvero Arca, Vivere Con e Badia Grande, ospitano quasi la metà dei migranti in accoglienza. Qual’è la vostra esperienza con questi gestori?
La nostra esperienza può essere letta nei report. Abbiamo fatto un monitoraggio, mi pare due anni fa, che riguardava Arca, e conosciamo Badia Grande dal Cara di Salina Grande. Abbiamo riscontrato le solite mancanze rispetto a convenzioni e quant’altro. Chi più chi meno, senza dover fare di tutta l’erba un fascio, ma c’è una modalità, ribadisco, pensata per guadagnarci. Nel momento in cui delle cooperative, come queste tre menzionate, gestiscono centri Sprar, gestiscono centri per minori, gestiscono Hotspot, gestiscono Cara, gestiscono Cas, alle spalle c’è proprio l’idea di business, di industria, e non c’è un progetto educativo alle spalle. Anche se magari un centro, gestito da Badia Grande piuttosto che da Arca, riescono a farlo funzionare perché la differenza la fanno le persone che lavorano all’interno. Magari sono fortunati e trovano persone preparate, con voglia di fare che mettono i rattoppi in quello che è un meccanismo che non va, che non funziona, in un sistema di non accoglienza.
Quindi complessivamente qual’è il vostro giudizio sul modello di accoglienza nel trapanese?
È negativo, come nel palermitano, nel catanese, nel messinese. È negativo perché è un sistema di non accoglienza.
Ma secondo te cosa si potrebbe fare per migliorarlo, passare a centri più piccoli?
Il centro più piccolo, sulla base di quello che ci siamo detti, di quello che c’è oggi, è la strada. Perché nel centro più piccolo puoi creare delle relazioni. Sessanta, 80, 200 persone sono dei contenitori, neanche li conosco. L’operatore legale non farà mai colloqui con 60 persone, con 4 forse si, ma con 100 sicuramente no. Restano dei meri contenitori. E guarda caso questi contenitori sono vicini alle campagne. Non è un caso, perché poi diventa forza lavoro invisibile, sfruttata nelle campagne. Non è un caso che Mazzara e Marsala, due cittadine in provincia di Trapani, sono quelle con più migranti sia in piccoli che grandi centri. Guarda caso è dove si raccolgono le olive in questo periodo, ma non è un caso, è tutto pensato per sfruttare le persone, per fare business. E quindi il concetto a cui tornare, non è di mettere al centro il business, ma di mettere al centro le persone. È questo che ci fa fare il salto di qualità. Dico sempre con utopia, se 30 euro al giorno li diamo in mano al migrante, sicuramente trova la possibilità di affittare casa e li gestirebbe veramente meglio quei 30 euro. Solo che noi italiani dove andiamo a lavorare visto che in Sicilia se non c’è questo lavoro non ce ne sono altri?