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Marco Accorinti è docente di sociologia presso il dipartimento di scienze della formazione dell’università Roma Tre. Tra le altre cose, da anni si occupa di politiche sociali, sistemi di welfare, valutazione dei servizi sociali e politiche migratorie.

(L’intervista è stata realizzata prima della pubblicazione del nuovo capitolato di gara, il 24 febbraio 2021)

Ascolta l’intervista integrale a Marco Accorinti

Per ottenere finalmente dati di dettaglio sul fenomeno dell’accoglienza sul territorio nazionale abbiamo lavorato anni, costretti a fare richieste di accesso agli atti e a rivolgerci persino al Tar. Come valuta il fatto che questi dati non siano resi accessibili dal ministero dell’interno?
Se non ledono la sicurezza nazionale e soprattutto se non mettono a rischio la vita dei richiedenti asilo, che devono essere tutelati, forme informative per gli studiosi, gli operatori e l’opinione pubblica devono essere rese accessibili a tutti e tutte. Nella mia attività di ricerca più volte mi sono dovuto interfacciare con il sistema dell’accoglienza, accedere ai centri per scopi che riguardavano la produzione della conoscenza della realtà, e in questo mi sono ritrovato nella difficoltà di dover chiedere autorizzazioni, vederle anche negate con motivi addotti che molto spesso erano poco comprensibili. A volte con una posizione che ho trovato quasi di pregiudizio rispetto alla ricerca scientifica svolta da istituzioni pubbliche e private. Credo che il lavoro come il vostro, di diffusione di dati sull’accoglienza, rientri nell’importante funzione politica di studio e approfondimento del tema.

Considerando che tra il 2018 e il 2019 assistiamo a una rilevante riduzione delle presenze, non accompagnata tuttavia da una altrettanto rilevante riduzione della capienza media dei centri, cosa si sarebbe potuto fare per migliorare l’integrazione, alla luce di una presenza minore di richiedenti asilo nel paese?
I discorsi da fare sarebbero molti. Voi stessi lo dichiarate chiaramente: il passaggio tra 2018 e 2019 ha fondamentalmente significato un cambiamento nei criteri di accesso all’accoglienza, ma anche nella tipologia dei centri. Alcuni di questi sono stati modificati nella loro strutturazione e nelle loro caratteristiche. In questi anni ho avuto accesso a più strutture, in ambito nazionale. Posso dire che la trasformazione è stata visibile non solo perché sono diminuiti gli arrivi, ma anche perché sono stati accompagnati alla porta molti migranti e richiedenti asilo che erano già stati inseriti in percorsi di accoglienza. Modificando le caratteristiche del sistema si sono visti negare o concludere il proprio periodo di accoglienza all’interno dei centri.

Cos’è cambiato nella gestione e nella qualità dei servizi nei centri?
Gli enti gestori si sono visti costretti a modificare la struttura dei centri. Ne è scaturita una riduzione nell’azione degli operatori. Di conseguenza molto spesso è stata sacrificata la qualità dell’intervento, con una diminuzione dell’attività professionale di tipo tecnico. Molti interventi di collegamento con il sistema di welfare locale hanno perso, in termini di possibilità di integrazione. Posso citare quello che è stato chiamato da alcuni ricercatori, come Monia Giovannetti, “welfare parallelo”. L’intervento di integrazione era demandato soltanto all’azione svolta dai centri, e non in collegamento con il sistema di servizi presenti sul territorio. La trasformazione in centri di più grandi dimensioni, con meno ore dedicate all’integrazione ha contribuito, del mio osservatorio, a far mancare dei percorsi di qualità nell’integrazione stessa. E quindi sono diminuite le ore di insegnamento di italiano, di orientamento e assistenza legale, ore supporto sociale o psico-sociale. Questo è sicuramente legato ai cambiamenti dovuti alle condizioni di accesso e al capitolato di gara approvato dal ministero.

La distribuzione sul territorio dei centri racconta di una massiccia presenza nelle aree metropolitane, che sulla carta presentano più servizi e opportunità ma dove ci sono anche più possibilità di marginalità sociale, e un quarto delle presenze nelle aree interne, dove ci sono meno servizi ma si possono creare progetti di prossimità più inclusivi. Queste dinamiche distributive sono orientate da politiche pubbliche a livello centrale?
Negli anni, a partire dal piano nazionale asilo (Pna), mi sono trovato più volte di fronte a una seconda accoglienza che veniva scelta in territori dove l’inserimento graduale e l’integrazione erano visti come stimolo alla crescita demografica. Territori medio-piccoli dove si registrava un decremento della popolazione, ma soprattutto dove i rapporti tra le persone fossero più immediati e diretti. Queste scelte non solo offrivano una visione secondo cui l’immigrazione poteva essere da supporto al mercato del lavoro, ma favorivano anche un percorso di crescita demografica importante. Quando il sistema si è allargato alle grandi città, queste ultime hanno ben rappresentato una calamita per il transito delle persone, perché le comunità nazionali nelle grandi città sono presenti, perché c’è più possibilità di essere inseriti in mercati di lavoro informali o irregolari, perché c’è meno controllo sociale. Questi aspetti hanno modificato lo spirito iniziale del Pna. Se non è possibile dire espressamente che ci sia stato un disegno politico nel concentrare le condizioni di accoglienza che ancora oggi continuiamo a registrare nelle aree metropolitane, c’è stata sicuramente una connivenza con sistemi e logiche che hanno inciso pesantemente sulle possibilità effettive di inserimento e integrazione sui territori. Anni fa ho potuto verificare le condizioni di impatto dei progetti Sprar. Allora emergeva chiaramente come i contesti locali potevano essere una variabile che favoriva perfettamente l’integrazione, o che al contrario assolutamente la impediva. Questo era strettamente legato alla dimensione del territorio che ospitava il centro. Se le grandi città possono fornire maggiori possibilità di accesso a determinati servizi, di fatto il capitale che in termini di relazioni offre una città media o piccola è una condizione che secondo i nostri studi favorisce molto di più l’integrazione a livello locale.

Come valuta la nuova riforma del sistema dell’accoglienza?
Bene, in attesa dell’implementazione pratica, perché non basta la definizione di linee di principio. Penso sia teoricamente migliore rispetto al passato, anche rispetto al 2017-2018. Perché, sempre ragionando in maniera teorica, si ripristinano servizi e interventi, e questi elementi rientrano nei termini di un’offerta di qualità dell’accoglienza. Non si escludono categorie di persone a seconda del proprio status, ma si guarda al bisogno della persona. L’altro elemento interessante è che non si distingue tra prima e seconda accoglienza, ma i centri rappresentano anche uno degli elementi di un piano di intervento di più ampio respiro e presa in carico. In questo, credo che ci possano essere le condizioni, anche per il terzo settore, per fare delle offerte in termini di qualità dell’intervento e dell’accoglienza migliori rispetto alla situazione attuale, ma anche forse a quella precedente.

Quali caratteristiche dovrebbe avere il nuovo capitolato di gara per favorire le migliori condizioni per reali processi di integrazione?
Non sono un esperto amministrativista, ma leggo i capitolati e osservo come gli operatori attuano gli interventi presso le persone accolte, secondo quei capitolati. In particolare, il mio lavoro di ricerca negli ultimi anni ha sempre considerato i ruoli dei professionisti: assistenti sociali, psicologi, educatori, mediatori, insegnanti di lingua. Queste figure nel nuovo capitolato non solo dovranno essere previste, ma dovranno essere considerate in modo più che adeguato rispetto alla capienza dei centri e al sistema. Le esperienze migliori che ho analizzato sono state quelle in cui le azioni del professionista all’interno del centro erano di integrazione con le risorse del territorio. Se si pensa che la struttura di accoglienza sia temporanea, ma che questa temporaneità può durare anche due anni, ci si deve necessariamente integrare con la rete territoriale. Per cui il nuovo capitolato a mio avviso dovrà prevedere la capacità di strutturare percorsi di rete con i servizi locali e favorire sempre di più un unico sistema di welfare, in contrapposizione al welfare parallelo. Un sistema dove ci sono risorse per la collettività, per favorire l’integrazione in un verso e nell’altro, dei richiedenti asilo e rifugiati, ma anche della popolazione residente nei confronti dei fenomeni più globali che caratterizzano l’epoca delle migrazioni che viviamo.

Foto credit: Francesco Bellina / Cesura

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