In politica non sempre le norme per la parità di genere funzionano Donne in politica

Dal 2004 ad oggi una serie di leggi hanno cercato di migliorare la parità di genere negli organi di rappresentanza politica. Non sempre con gli effetti sperati.

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La politica italiana è ben lontana dall’essere un luogo i cui uomini e donne hanno lo stesso peso.

Storicamente in tutte le assemblee di rappresentanza la quantità di donne, e la qualità dei loro incarichi, è sempre stata inferiore rispetto agli uomini. Un dato di fatto, che ancora oggi continua ad essere una realtà. Solo il 14% dei sindaci italiani sono di sesso femminile e solamente 2 delle 21 tra regioni e province autonome sono guidate da donne.

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Anche nell’attuale esecutivo la situazione non è migliore. Considerando anche sottosegretari e viceministri, gli uomini rappresentano oltre l’80% della squadra di governo, dato più basso dal governo Letta ad oggi.

Sono stati considerati: ministri, viceministri e sottosegretari all’insediamento del governo. I dati non tengono in considerazioni eventuali successive variazioni.

FONTE: elaborazione openpolis

Proprio per colmare in qualche modo questo gap, ormai dal 2004 sono state approvate una serie di leggi per "correggere" la situazione, inserendo dei meccanismi che favorissero la parità di genere, quantomeno negli organi elettivi. Ogni ambito territoriale, dai comuni alle regioni passando per il parlamento nazionale e quello europeo, è stato coinvolto da qualche tipo di riforma.

Le leggi cercano di colmare le troppe distanze tra uomini e donne nella rappresentanza politica.

Analizzando i dati dello "Studio e valutazione dell’impatto delle misure di riequilibrio di genere previste dalla legislazione vigente in materia di cariche elettive e di governo" del Cnr con la Presidente del consiglio, e incrociandoli con i dati openpolis sulla rappresentanza politica, possiamo vedere come e quanto queste leggi abbiano avuto effetto.

I comuni italiani

L’ambito in cui è possibile portare avanti il maggior numero di considerazioni è sicuramente quello dei comuni italiani. La legge 215 del 2012 ha infatti introdotto una serie di misure con il chiaro scopo di favorire l’equilibrio di genere negli organi di rappresentanza politica. In particolare sono stati coinvolti dalla normativa tutti i comuni con popolazione superiore ai 5.000 abitanti. I correttivi introdotti sono stati i seguenti:

  • Quote di lista (art. 2): nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati;
  • Doppia preferenza di genere (art. 2): pena l’annullamento delle schede, è possibile esprimere due preferenze (anziché una), purché riguardanti due candidati di sesso diverso.

La norma va ad affrontare diversi aspetti della questione: da un lato lato prescrive che nella presentazione delle liste dei candidati nessuno dei due sessi può essere rappresentato con quota inferiore al 33%, dall’altro, nel caso di doppia preferenza espressa, "costringe" l’elettore a individuare due candidati di sesso opposto.

Solo nel 2013 la percentuale di donne candidate nei consigli comunali ha superato il 30%.

È giusto sottolineare che fino all'approvazione della legge la situazione di disparità era evidente, sia analizzando i dati dei candidati che quello degli eletti. Dal 2009 al 2012 la percentuale di uomini tra i candidati era costantemente oltre il 70%, raggiungendo un picco notevole nel 2010, quando 1 solo candidato su 4 era donna.

Solo con il primo anno di applicazione della legge (nel 2013) le donne hanno superato il 30% di rappresentanza nelle liste dei candidati, segnando quindi un forte cambio di passo. Tra il 2009 e il 2016 la percentuale di donne tra i candidati alle elezioni comunali è aumentata del 26,84%.

Andamento nel tempo dei candidati alle elezioni comunali.

FONTE: dati Cnr-Irrps

Il cambio di passo dall'introduzione della legge è evidente, considerando che dal 2014 la percentuale di donne tra i candidati è stabilmente sopra quota 34%. Le dinamiche territoriali da questo punto di vista però segnano molte differenze nelle diverse aree del paese.

Mentre alcune regioni avevano percentuali di donne candidate alle elezioni comunali che superavano il 30% già nel 2009 (vedi Toscana ed Emilia-Romagna), altre hanno a malapena raggiunto questa percentuale nel 2016, come Abruzzo, Calabria e Molise. È proprio nei comuni di Toscana ed Emilia-Romagna che si è registrato il dato più importante, quando nel 2016 oltre il 40% dei candidati erano donne.

8 su 10 consiglieri comunali fino al 2012 erano uomini.

Anche tra le elette la situazione è notevolmente variata.

Fino al 2012 le donne rappresentavano circa il 20% dei consiglieri comunali eletti nel nostro paese. Con l’approvazione della legge il balzo in avanti è stato notevole, anche se comunque la via per la piena parità di genere appare molto distante. Nel 2016, ultimo anno preso in considerazione, le donne elette erano il 30,40%, con un balzo del 40% rispetto al 2009. Questi dati prendono in considerazione tutti i comuni italiani, anche quelli con meno di 5.000 abitanti e quindi non coinvolti direttamente dalla normativa.

Media annuale delle donne elette dal 2009 al 2016

FONTE: dati Cnr-Irrps

L'indice di successo delle donne

Nonostante i passi in avanti siano stati tanti, nei consigli comunali di 11 regioni su 20 gli uomini continuano a rappresentare oltre il 70% degli eletti. Un motivo di questa continua disparità può essere compresso analizzando l'indice di successo di uomini e donne. Il dato, elaborato nello studio del Dri e Cnr-Irpps, mette in relazione la percentuale di elette con la percentuale di candidate. Quando il dato è 1, vuol dire che abbiamo una perfetta corrispondenza tra la quota di elette rispetto alla quota di candidate.

La percentuale di candidate spesso non corrisponde alla percentuale di elette, ad evidenziare la forte difficoltà a farsi eleggere rispetto agli uomini.

Dal 2009 ad oggi il dato per gli uomini è costantemente sopra il valore di 1, questo vuol dire che la percentuale di uomini eletti ha sempre superato la percentuale di uomini candidati. Nel 2016, come nel 2009, il valore è allo 1,08, evidenziando una grande facilità per gli uomini a essere eletti. Lo stesso non si può dire per le donne, il cui indice, pur in parziale crescita, non ha mai superato lo 0,88.

Nonostante il balzo nel 2012 dovuto alla legge sulla doppia preferenza di genere, la piena corrispondenza tra percentuale di candidate e percentuale di elette non è ancora stata raggiunta, segnando in questo la prima grande differenza tra uomini e donne.

Non va sicuramente meglio alle donne candidate nei consigli regionali del nostro paese.

0,47 l'indice di successo delle donne nei consigli regionali. È il dato più basso tra gli organi elettivi

Mentre in tutte le altre assemblee elettive (comuni, parlamento nazionale ed europeo) il dato delle donne è sensibilmente in crescita, e sempre più vicino al valore di 1 (perfetta corrispondenza tra quota di candidate e di elette), nei consigli regionali del nostro paese la storia è molto diversa, e si aggira intorno allo 0,47. Non solo, rispetto alle tornate che si sono svolte tra il 2000 e il 2001, il dato è persino diminuito, quando l’indice di successo delle donne era dello 0,52.

L'indice di successo delle donne è sempre notevolmente più basso rispetto a quello degli uomini.

Questi numeri dimostrano l’attuale enorme difficoltà delle donne a farsi eleggere nei consigli regionali, specialmente al sud dove il valore è fermo allo 0,31. Tra i consigli regionali quelli del centro (0,60) e del nord-est (0,58) hanno fatto registrare il valore più alto, ma come abbiamo visto si tratta di cifre comunque ben lontane da quelle ottenuto dalle donne negli altri organi di rappresentanza politica.

Indice di successo: rapporto tra la quota di candidate e la quota di elette. Quando il dato è 1, vuol dire che abbiamo una perfetta corrispondenza tra la quota di elette rispetto alle candidate.

FONTE: dati Cnr-Irrps

Chiaramente se da un lato l’indice di successo delle donne è molto basso, dall’altro è chiaro che le possibilità per gli uomini siano maggiori. Nelle tornate regionali tra il 2013 e il 2015 l’indice di successo degli uomini è stato dell’1,35, sensibilmente più alto di quello alle elezioni comunali (1,08), parlamento nazionale (1) e parlamento europeo (1).

Come funziona nelle regioni italiane

Affrontare il discorso a livello regionale è più complicato, ma certamente altrettanto interessante. Per l’autonomia legislativa che hanno le regioni italiane nel nostro sistema normativo, ogni ente può stabilire in maniera autonoma le regole elettorali.

Ogni regione ha meccanismi diversi per la parità di genere, questo comporta una generale presenza di donne molto bassa nei consigli regionali.

In questo senso l’evoluzione della materia è stata piuttosto recente, e ha avuto un’accelerazione ancora una volta con la legge 215 del 2012. Il testo è infatti andato a modificare la legge 165 del 2004 che stabiliva i principi generali per le elezioni regionali, inserendo tra i principi fondamentali la necessità di approvare misure che incentivassero la parità di genere tra le cariche elettive. Con la legge 20 del 2016 lo stato ha poi indicato specifiche misure a disposizione delle regioni.

Nonostante l’autonomia normativa abbia portato a norme molto diverse e ad una poca uniformità legislativa, i dati delle donne elette nei consigli regionali del nostro paese sono in aumento. Ciò detto, forse proprio per queste tante differenze, la crescita è stata di molto inferiore a quella fatta registrare dai comuni italiani.

1 su 10 le donne nei consigli regionali fino al 2011.

Nelle tornate elettorali che si sono tenute dal 2000 al 2003, tanto per avere un termine di confronto, le donne elette erano l’8,60%. Oltre il 90% dei consiglieri regionali erano quindi uomini. Dal 2004 in poi i numeri hanno iniziato a crescere, seppur in maniera contenuta, e comunque ottenendo dei risultati molto lontani dalla parità di genere. Fino al 2011 le donne elette nei consigli regionali erano solo il 10%.

Con il 2012, e il chiaro invito da parte del parlamento nazionale alle regioni di approvare norme per favorire la parità di genere, i dati hanno dimostrato una crescita più sostanziale. Nelle tornate elettorali che sono andate dal 2012 al 2015, rispetto a quelle che sono avvenute dal 2008 al 2011, la percentuale di donne elette sul totale dei consiglieri regionali è infatti aumentata del 55%, passando dall’11,38% al 17,60%.

17,60% dei consiglieri regionali sono donne. Nonostante i meccanismi per la parità di genere, le donne nei consigli regionali sono sempre poche.

Il dato, per quanto in crescita, è comunque molto basso, considerando che nei consigli comunali, solo per fare un confronto, le donne sono circa il 30%.

Le diverse tornate elettorali sono state raggruppate per periodo temporale.

FONTE: dati Cnr-Irrps

Le regole per le elezioni del parlamento europeo

La prima assemblee elettive che è stata coinvolta in Italia da una legge per favorire la parità di genere è stata il parlamento europeo.

Nel 2004 la legge 90 (applicata per le tornate 2004 e 2009) ha infatti prescritto l'obbligo di una quota di un terzo di uno dei due sessi sul piano nazionale nella presentazione delle liste. Con la legge 65 del 2014 poi è stato affrontato anche l'aspetto delle preferenze, inserendo la cosiddetta tripla preferenza di genere, la possibilità cioè di esprimere fino a tre preferenze, purché queste siano di sesso alternato: o 2 uomini e 1 donna, o 2 donne e 1 uomo.

Questo meccanismo, utilizzato già nelle europee 2014, è pero transitorio, e per le prossime elezioni europee del 2019 sarà integrato con altri correttori. Il primo riguardo l’obbligo di liste 50 e 50, per la piena equità dei sessi, mentre il secondo oltre alla tripla preferenza di genere, include anche la doppia preferenza di genere. Non solo nel caso di tre preferenze, ma anche nel caso di due, l’elettore deve mantenere l’alternanza dei due sessi.

Già nel 2004 le candidate al parlamento europeo erano oltre il 30%.

I dati delle elezioni per il parlamento europeo dal 2004 ad oggi permettono di vedere in maniera molto chiara gli effetti delle diverse leggi. Il primo elemento che emerge è l’alta percentuale, sin dal 2004, di candidate.

La quota di candidate è infatti superiore al 30% ormai da 14 anni, un valore che negli altri organi è stato raggiunto (se raggiunto) solamente ultimamente. Già nel 2004 nella circoscrizione Italia nord-orientale, solo per fare un esempio, la quota di donne tra i candidati era del 38%.

Sono stati analizzati i dati nazionali per le elezioni europee 2004, 2009 e 2014. Le tre tornate in cui erano in atto meccanismi per la parità di genere.

FONTE: dati Cnr-Irrps

Ma se il dato delle candidate è stato più o meno stabile, seppur con una leggera crescita nel 2014, quello delle elette ha avuto un’impennata proprio nell’ultima tornata elettorale. Rispetto al 2009 l’aumento è stato del 130%, raggiungendo quota 38%.

Questi numeri ci raccontano quanto la tripla preferenza di genere sia stata già nella sua prima applicazione un meccanismo particolarmente virtuoso. Tra le diverse istituzioni analizzate, il parlamento europeo è quello con la percentuale più alta di donne elette. In vista delle elezioni del 2019, considerando i due ulteriori correttivi descritti sopra, è immaginabile un’ulteriore crescita.

Il problema della pluricandidature nel parlamento italiano

Fino alle politiche del 2018, la legge elettorale per le elezioni del parlamento italiano non prevedeva dei meccanismi per favorire la parità di genere. Con l'approvazione del Rosatellum bis sono state inserite norme di genere sia per i collegi plurinominali che per quelli uninominali. Il primo correttivo riguarda l’obbligo, a pena di inammissibilità, nella presentazione delle liste nei collegi plurinominali di seguire un ordine alternato di genere.

Con le  pluricandidature i meccanismi per la parità di genere vengono disinnescati.

Allo stesso tempo, sempre nei collegi plurinominali, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore al 60% nella posizione di capolista. Per quanto riguarda invece i collegi uninominali, nella presentazione delle candidature nessuno dei due sessi, a livello nazionale per la camera e regionale per il senato, può essere rappresentato in misura superiore al 60%.

Purtroppo però, per come è strutturata la legge elettorale, le regole sulle quote di genere sono state fortemente depotenziate dalla possibilità delle pluricandidature. Un candidato nei collegi plurinominali può infatti ora presentarsi in 5 diversi collegi al livello nazionale. In aggiunta a questi può anche correre in un collegio uninominale. Cosa implica tutto questo? Se una donna viene candidata in un collegio uninominale, e in 5 collegi plurinominali come capolista, qualora venisse eletta all'uninominale, eventuali suoi seggi al plurinominali andrebbero a uomini.

Gli effetti indiretti delle leggi

Analizzando le varie leggi che sono state approvate, e gli effetti che hanno avuto, una prima considerazione che si può fare è sul contesto culturale, in cui il tema sembra conquistare sempre maggiore importanza.

Anche nelle assemblee in cui non erano attivi specifici correttivi per favorire la parità di genere i dati delle donne sono comunque aumentati negli anni. Questo è dovuto sicuramente ad una maggiore sensibilità al tema ma anche, soprattutto per i comuni con meno di 5.000 abitanti, ad un importante effetto traino.

La legge del 2012 che ha introdotto meccanismi per favorire la parità di genere, riguarda solamente i comuni con più di 5.000 abitanti

FONTE: dati Cnr-Irrps

Pur in misura inferiore infatti, anche in questi comuni sia il numero di candidate che di elette è sensibilmente cresciuto. Specialmente in quelli con popolazione tra i 3.001 e i 5.000 abitanti l’effetto traino rispetto alla normativa nazionale approvata nel 2012 è chiara. La percentuale di candidate è aumentata del 19% (+27% invece la media nazionale) e quella delle elette del 32% (media nazionale al +40%). Lo stesso, anche se in misura minore, si può dire per i comuni più piccoli. Tra il 2009 al 2016 la percentuale di candidate è passate dal 27,10% al 30,50%, e quella delle elette dal 22,30% al 26,40%.

Nelle assemblee elettive in cui sono state applicate, i meccanismi per la parità di genere hanno avuto un effetto notevole.

Più in generale è quindi giusto sottolineare che tutti i correttivi inseriti dal 2004 ad oggi hanno contribuito a “velocizzare” (direttamente ed indirettamente) una dovuta evoluzione nella rappresentanza politica. Ora, seppur ad intensità diverse, in ogni organo politico del paese la parità di genere è un tema e ovunque si sono testimoniati dei miglioramenti.

La strada ancora da percorrere

Purtroppo però l’impulso e lo stimolo dato dalle norme approvate non può riuscire a modificare altri aspetti che non sono, e non potranno mai, essere toccati da questi meccanismi. In primis il problema dei ruoli apicali: le donne sindaco in Italia sono solo il 14,1% e, solo per fare un altro esempio, dal 2003 al 2015 le donne presidente di regione sono state solamente 5, due numeri per far capire ancora la lunga strada da percorrere.

Nonostante la crescita nelle assemblee elettive, le donne nei ruoli apicali sono sempre poche

In secundis le differenze territoriali, specialmente tra meridione e settentrione. Negli anni le politiche per il riequilibrio di genere hanno certamente contribuito a colmare questo gap, ma ancora oggi le quote di elette e nominate nei comuni del sud, per fare un esempio, rimangono inferiori a quelle dei comuni del centro e del nord.
Questi due elementi sottolineano che per quanto il legislatore possa tentare di “imporre” paletti correttivi, non è detto che la società viaggi alla stessa velocità. 

Foto credit - Wikimedia

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