La propaganda social e la difficile definizione di politica Internet & politica

Facebook, Twitter e Google stanno prendendo direzioni diverse per affrontare il problema della propaganda social. Nell’immobilismo delle istituzioni appare sempre più complicato definire cosa voglia dire fare politica online.

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Dopo l’ondata di attenzione mediatica intorno al tema in vista delle elezioni per il parlamento europeo, è giunto il tempo di analizzare a che punto è il dibattito sulla propaganda social

Le azioni di apertura messe in campo da Facebook, Twitter e Google, sotto invito della commissione europea, si sono rivelate fallimentari, provando chiaramente quanto l’autoregolamentazione non possa essere la soluzione su cui investire. Ma nel prorogato immobilismo delle istituzioni i grandi player del mercato si stanno iniziando a muovere.

Inutile dire che Facebook, Google e Twitter stanno sbagliando, se la politica è ferma.

Twitter, attraverso il suo amministratore delegato Jack Dorsey, ha dichiarato che entro novembre non sarà più possibile sponsorizzare contenuti politici. Facebook ha invece deciso di non voler eliminare i post sponsorizzati dai politici contenenti informazioni false. Al tempo stesso iniziano a girare indiscrezioni che sia Facebook che Google vogliano eliminare il micro targeting per le inserzioni pubblicitarie politiche. Insomma tante soluzioni, tutte diverse, che non aiutano i cittadini.

Tutto questo sta aprendo anche un altro tema: cosa vuol dire fare politica online? Molte delle soluzioni suggerite limitano il raggio di controllo a candidati ed eventi elettorali, ma questa risposta non sembra riuscire ad intercettare tutte le sfumature della questione.

La decisione presa da Twitter

Lo scorso 30 ottobre Twitter ha preso l’importante decisione di progressivamente eliminare la possibilità di fare sponsorizzazioni politiche. Dietro la scelta la realizzazione che i post a pagamento compromettano il principio per cui il successo di un messaggio politico sui social debba dipendere dalle interazioni che riceve, e non dall’investimento economico.

Un rischio per la nostra democrazia, visto che i contenuti politici sponsorizzati possono influenzare le elezioni e quindi avere delle conseguenze sulla vita di milioni.

È stata anche presa la decisione di sospendere le cosiddette “issue ads”, cioè quei contenuti sponsorizzati che, anche se non scritti da politici e/o partiti, trattano tematiche politiche o socialmente rilevanti. La decisione di Dorsey e di Twitter è poi soprattutto un appello alla classe dirigente mondiale.

Abbiamo bisogno di politiche e regolamentazioni che guardino al domani (cosa molto difficile da fare). Gli obblighi di trasparenza per le pubblicità sono un inizio, ma non è abbastanza. Internet fornisce nuove possibilità, e il legislatore deve pensare al domani per assicurare parità di condizioni per tutti

La scelta è basata sulla realizzazione da parte di Twitter che essendo la tematica complessa e con delle ramificazioni serie nella nostra democrazia, sia necessario fare un passo indietro per capire come intervenire. Un intervento però che non può essere fatto dalle aziende, ma da chi prende le decisioni politiche.

$3 milioni spesi per pubblicità su Twitter dai politici Usa per le elezioni midterm 2018.

Se per molti la scelta è stata giusta, non sono mancate le critiche, soprattutto per le tante contraddizioni dietro al concetto di “issue ad”. Cosa si intende esattamente per “contenuto politico”? Come si fa a marcare il confine tra una dichiarazione per scopi politico/sociali e una dichiarazione normale?

Marcare il confino tra un contenuto normale e un contenuto politico può essere molto difficile.

Ma facciamo un esempi pratico. Con le nuove regole determinati gruppi di attivisti non potranno più sponsorizzare contenuti, ma le aziende privati potranno continuare a farlo. È il caso, come sottolineato da HEATED, dei gruppi ambientalisti che non potranno più valorizzare i loro post a favore di migliori politiche sul clima, in quanto “issue ads”, mentre colossi dell’energia come Exxon, con delle chiare agende politiche sul tema, non avranno formalmente limiti.

La lettera dei dipendenti Facebook a Zuckerberg

Un paio di giorni prima che Dorsey facesse la sua dichiarazione, circa 250 dipendenti Facebook hanno scritto una lettera aperta a Mark Zuckerberg chiedendo di intervenire con migliori regole per le pubblicità politiche. Un appello al fondatore del social network basato sul credo che la libertà di espressione e i contenuti sponsorizzati non siano la stessa cosa.

La disinformazione colpisce tutti noi. Le nostre attuali politiche sul controllo di ciò che dicono i politici o coloro che si candidano per una carica rappresentano una minaccia per ciò che Facebook rappresenta. Siamo fortemente contrari a queste politiche così come sono. Non proteggono le opinioni, ma consentono invece ai politici di usare la nostra piattaforma come un’arma, prendendo di mira le persone che credono che i contenuti pubblicati da personaggi politici siano affidabili

In particolare la lettera si incentrava su 6 suggerimenti:

  • Richiedere gli stessi standard alle pubblicità politiche, come per le altre pubblicità;
  • Trattamento grafico più netto per le pubblicità politiche;
  • Limitare le capacità di targeting per le pubblicità politiche;
  • Rispetto del silenzio elettorale;
  • Tetto alle spese dei singoli politici per le sponsorizzazioni;
  • Regole più chiare per le pubblicità politiche.

I punti sollevati riprendono molte dei temi su cui da tempo come openpolis chiediamo di intervenire: dal problema delle micro targetizzazioni, alla necessità di far rispettare il silenzio elettorale anche su internet.

Tutto questo a poche settimane dalla decisione presa da Facebook di non rimuovere un video sponsorizzato da Trump contenente informazioni false su Biden. Una scelta basata sul credo che il “discorso politico non debba essere limitato, in quanto renderebbe le persone meno informate sulle opinioni dei candidati eletti e i personali politici sarebbero meno responsabili delle loro parole“.

Facebook e Google valutano di eliminare il micro targeting per le pubblicità politiche.

È notizia di questi giorni poi che sia Google che Facebook stiano considerando l’eliminazione del micro targeting per le pubblicità politiche. La possibilità cioè di indirizzare determinati contenuti solamente a gruppi ristretti di elettorato, potenzialmente suggerendo proposte politiche non uguali a gruppi demografici differenti.

L’esperimento (fallito) delle europee 2019

Se Facebook, Google e Twitter stanno affrontando il problema in maniera diversa è anche e soprattutto perché ad oggi hanno la piena di libertà di azione sul tema. La mancanza di regolamentazione nei diversi paesi fa sì che aziende private che gestiscono servizi di online advertising siano libere di agire come meglio credono.

Come abbiamo avuto modo di raccontare nei mesi precedenti al voto la commissione europea era intervenuta chiedendo a Facebook, Google e Twitter, su tutti, di mettere in campo delle operazioni per rendere più trasparenti le pubblicità politiche online.

Le operazioni di trasparenza per le europee 2019 erano scoordinate e non esaustive.

Un percorso che aveva portato alla messa online di diverse piattaforme, tutte differenti, che in vario modo cercavano di rispondere alle richieste della commissione. Risposte non coordinate che di fatto non hanno reso la materia più trasparente, ma che hanno solo contribuito a fare confusione sul tema. In particolare perché su uno dei temi più caldi, quello delle micro targetizzazioni, venivano solamente fornite le variabili demografiche (età, sesso, area geografica), e non quelle di comportamento (es. utenti che seguivano determinate pagine su un social).

A fine ottobre è stato redatto il primo report di auto valutazione sui progressi fatti dalle diverse piattaforme. Nelle considerazioni fatte dalla commissione europea sulle auto valutazioni non sono mancanti i punti critici. Principalmente il fatto che i dati e gli strumenti messi a disposizione di ricercatori e società civile per analizzare la materia sono stati sporadici e arbitrari, non rispondendo ad esigenze di ricerca più ampie. In aggiunta i documenti forniti dai diversi player sono risultati poco dettagliati in relazione a metriche qualitative per analizzare realmente l’impatto delle operazioni messe in campo.

Cosa sta facendo la politica?

Se Facebook, Google e Twitter stanno andando tutti in direzioni diverse, è perché le istituzioni sono in silenzio. Sia Zuckerberg a marzo che Dorsey a fine ottobre hanno sottolineato la chiara necessità di interventi normativi da parte della classe politica. Come riconosciuto infatti, la materia ha delle implicazioni tali sulle qualità della nostra democrazia, che certe decisioni devono essere prese da chi è eletto per prenderle.

Sia Facebook che Twitter hanno richiesto un intervento della politica.

La necessità di spostare la discussione sul tema nel campo della politica è soprattutto per un bisogno di trasparenza. Il dialogo deve essere aperto, e non circoscritto agli uffici dirigenziali delle grandi aziende del web. Un dialogo che deve coinvolgere non solo la politica e le piattaforme digitali, ma anche società civile, ricercatori e cittadini.

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